I pensieri di Gianni Grassi, un famoso sociologo
29/09/2017
“Intorno alle ultime cose”
Gianni Grassi, famoso sociologo, intervistato da Francesca Catarci nel Documentario ‘Intorno alle ultime cose’, trasmesso da Rai3.
Sono ricoverato in questo luogo che si chiama Hospice, sono malato di cancro.
Se resisto e se ancora ho qualche chance di farla diventare da una disavventura un’opportunità, qual è il mio stile di vita di fronte alle esperienze negative, lo devo al fatto di essere qui.
Hospice ce n’è pochi in Italia, ma sono quei luoghi dove si coltiva una cultura diversa, che è la cultura dell’assistenza, del prendersi cura dei malati – sempre di più – dichiarati inguaribili.
Spesso si parla di quelli oncologici, come me, che una volta venivano abbandonati perché rappresentavano la sconfitta della medicina; ma siccome stiamo diventando una maggioranza –come un po’ nei sindacati, continuano a dire sindacati dei lavoratori ma sono sindacati dei pensionati – così qui noi siamo la maggioranza: i malati sono cronici.
Soltanto che rimangono due tabù rispetto a questa realtà: da una parte il tabù degli errori, che è un tabù eccezionale – perché i medici hanno così paura di affrontare il discorso degli errori? – l’altro è la morte. Questo della morte, che poi è il più grande errore che fanno, secondo loro, quello di lasciarci morire – come se non dovessimo tutti morire: è un dovere biologico, sociale.
Perché c’è chi chiede l’eutanasia? Non è la morte in sé che fa paura, normalmente.
Non è la paura del dolore, quella che copre tutte le altre.
No, perché oggi si può essere curati anche dal dolore.
Voglio dire, c’è tutta una lotta da fare sul dolore, sul fatto che siamo tra gli ultimi Paesi che usano la morfina, ma queste cose si sanno.
Per andare proprio al sodo, qual è la vera paura?
La paura della solitudine, l’abbandono.
Allora, sono sempre più convinto che ognuno muore come ha vissuto: se hai seminato molto, raccogli molto. E cosa raccogli? Relazioni. Sono convinto sempre di più che la vita è relazione, che la cura è relazione, che il 75 per cento delle cure terapeutiche sono fatte di relazioni terapeutiche, il 25 per cento poi è biologia, tecnologia, farmacologia, statistiche.
Perché se tu medicina, tu medici, sai – o dovresti sapere – tutto sulla malattia, sulla singola malattia, sulla mia malattia, su come io la vivo e la soffro sono io l’unico competente, o no? Allora o è un confronto, una trattativa, uno scontro tra due competenze, o l’una riconosce l’altra, oppure non è scienza la medicina.
Una paura che non ho, fin da adesso, è che – nonostante la pesantezza del male – io penso, spero, di avere garantita una tale rete di rapporti, di relazioni, di affetto che mi aiuterà a morire come spero io.
Tutte le mattine sempre più mi chiedo: che giornata sarà oggi? Varrà la pena di essere vissuta? Sento subito questa stanchezza preventiva, la stanchezza di vivere, che mi condiziona e mi lascia un po’ in sospeso; dall’altra parte, però, contemporaneamente – e a volte, poi, subentra e mi fa vivere molto meglio – sorge una domanda e una sensazione di questo tipo: sarà un altro momento di ‘soddisfazione’, di pienezza, che andrà a riempire la mia vita?
Tanto è vero che io sono arrivato a ridurre tutti i miei progetti, perché è un fatto non soltanto di tempo (i miei tempi ormai si sono ridotti a tempi soggettivi, la nozione di tempo oggettivo mi è sparita); allora in questo aspetto soggettivo del tempo, che sento piano piano restringersi, vorrei salvare un progetto. È un progetto bello, vero, vivificante ed è quello di riraccontare la mia vita alle nipotine. Essere capace di rivedere tutta la mia vita nei suoi tre grumi – infanzia, maturità, malattia – raccontandola però a loro. E sarebbe anche il modo migliore da una parte di essere semplice e vero, perché con i bambini non puoi che essere autentico e se non ti capiscono te lo dicono e se dici una bugia a maggior ragione; dall’altra di aiutarle, di aiutarmi a perdermi, a lasciarmi andare…